Cassazione: “La denuncia dell’abuso della cosa comune da parte di un condomino rientra tra gli atti conservativi inerenti alle parti comuni dell’edificio che spetta di compiere all’amministratore, senza alcuna necessità di autorizzazione dell’assemblea dei condomini”
Dal completamento del quadro normativo che ha messo in piedi nel nostro ordinamento le detrazioni fiscali del 110% (superbonus) si è acceso un grosso faro sullo stato di legittimità dell’edificato del Paese.
Detrazioni fiscali e abusi edilizi
Non che queste detrazioni abbiano cambiato la normativa edilizia, ma l’importanza dell’aliquota concessa per gli interventi che accedono al bonus, le opzioni alternative (sconto in fattura e cessione del credito) e le responsabilità dei diversi soggetti impegnati nel processo, hanno decisamente cambiato l’approccio di tutti a quelle che fino a poco tempo fa non erano considerate “cause ostative” all’avvio dei lavori.
L‘art. 49 del DPR n. 380/2001 (Testo Unico Edilizia) ha, infatti, sempre previsto che per accedere ad una detrazione fiscale l’immobile deve essere esente da abusi e il successivo art. 50 ha anche dato la possibilità di sanare la posizione edilizia per non perdere le agevolazioni concesse.
In tutto questo, l’art. 119, comma 13-ter del D.L. n. 34/2020 (Decreto Rilancio) ha messo nero su bianco l’obbligo per i tecnici che si occupano del titolo edilizio necessario ad avviare gli interventi che accedono al superbonus e per gli Sportelli Unici per l’Edilizia che devono accertarli, di asseverare lo stato legittimo delle parti comuni degli edifici interessati dai medesimi interventi.
Abusi edilizi, condominio e parti comuni
Un obbligo che ha avuto come prima ripercussione l’inasprimento dei rapporti (già difficili) tra i proprietari di unità immobiliari in condominio. Abbiamo già chiarito che mentre gli abusi edilizi delle parti private non vanno ad incidere sullo stato di legittimità delle parti comuni, gli abusi perpetrati da un privato sulle parti comuni diventano una causa ostativa all’accesso del bonus.
Ciò che va chiarita è la definizione di parti comuni. E su questa ci viene in aiuto l’art. 1117 del Codice Civile per il quale sono oggetto di proprietà comune dei proprietari delle singole unità immobiliari dell’edificio, anche se aventi diritto a godimento periodico e se non risulta il contrario dal titolo:
- tutte le parti dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate;
- le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l’alloggio del portiere, la lavanderia, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all’uso comune;
- le opere, le installazioni, i manufatti di qualunque genere destinati all’uso comune, come gli ascensori, i pozzi, le cisterne, gli impianti idrici e fognari, i sistemi centralizzati di distribuzione e di trasmissione per il gas, per l’energia elettrica, per il riscaldamento ed il condizionamento dell’aria, per la ricezione radiotelevisiva e per l’accesso a qualunque altro genere di flusso informativo, anche da satellite o via cavo, e i relativi collegamenti fino al punto di diramazione ai locali di proprietà individuale dei singoli condomini, ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, salvo quanto disposto dalle normative di settore in materia di reti pubbliche.
Definizione per la quale è possibile fare almeno una considerazione: il tecnico che deve asseverare lo stato legittimo dell’edificio, relativamente alle parti comuni, DEVE obbligatoriamente verificare se all’interno delle unità immobiliari sono stati realizzati degli abusi che coinvolgono quelle che per legge devono essere considerate parti comuni. Come ad esempio l’involucro (quindi occhio alle verande), i muri maestri, i pilastri, le travi portanti…
Abusi edilizi e condominio: chi è responsabile?
Ma chi è il responsabile della “cosa comune”? Per rispondere a questa domanda viene in soccorso una recente sentenza della Corte di Cassazione (la n. 7884/2021) chiamata per un ricorso presentato avverso una sentenza della Corte di Appello che a sua volta aveva confermato la decisione del Tribunale che, accogliendo la domanda di un Condominio, aveva ordinato ad un condomino di ripristinare lo stato dei luoghi, stante l’illegittimità di un abuso realizzato che coinvolgeva le parti comuni.
Al di là del caso di specie, è molto interessante la parte della sentenza che riguarda le responsabilità dell’amministratore di condominio. Secondo la Cassazione, infatti, quando l’abuso riguarda la cosa comune da parte di uno dei condomini, si riconosce all’amministratore il potere di agire in giudizio, al fine di costringere il condomino inadempiente alla osservanza dei limiti fissati dall’art. 1102 (Uso della cosa comune) del Codice Civile.
In tale ipotesi, l’interesse, di cui l’amministratore domanda la tutela, è un interesse comune, in quanto riguarda la disciplina dello uso di un bene comune, il cui godimento limitato da parte di ciascun partecipante assicura il miglior godimento di tutti. La denuncia dell’abuso della cosa comune da parte di un condomino rientra, pertanto, tra gli atti conservativi inerenti alle parti comuni dell’edificio che spetta di compiere all’amministratore, ai sensi dell’art. 1130, n. 4, del Codice Civile, senza alcuna necessità di autorizzazione dell’assemblea dei condomini.
L’amministratore di condominio, per conferire procura al difensore al fine di costituirsi in giudizio nelle cause che rientrano nell’ambito delle proprie attribuzioni, neppure necessita di alcuna autorizzazione assembleare. La procura alle liti conferita dall’amministratore di condominio è poi valida anche se la persona fisica che la conferisce non indichi espressamente la qualità di rappresentante dei partecipanti ex artt. 1130 e 1131 c.c., purché tale qualità risulti dall’intestazione o anche dal contesto dell’atto cui inerisce, attesa la possibilità che nel conferimento della procura alle liti la spendita del nome assuma forme implicite.